Ostentare il personale, lavare in piazza – sul web (www.stefanopasquini.net)
– i panni sporchi rappresenta per Stefano Pasquini una vera strategia. Un
cocciuto attaccamento alla realtà delle cose, alle piccolezze della sfera
privata, che può garantire una via d'uscita da una realtà di apparenze, da una
comunicazione mistificante. L'approccio concettuale è vissuto qui come una
liberazione, non tanto dall'opprimente banalità delle cose, ma dalla decadenza di
un mondo antidemocratico, clientelista, consumista... in particolare del
sistema dell'arte.
Sono diverse le modalità che gli permettono un
approccio dissacrante. E rivolgendosi al mondo dell'arte, è nel parallelo con
le regole di mercato che trova un modo per arrivare a “dire le cose come
stanno”. O attraverso una finta auraticità, per cui gli Unrealizeable projects –
A0007: Radio Maison Bertaux: a box in the middle of the ceiling upstairs
with rays of thin metal bars with electrical wire inside and little microphone
at the end. The pirate radio transmits people's conversations switching from
one table to the other at random; A000013: “enough” is written in concrete in
front of the Statue of Liberty. The sign is only visible on a low tide, and
when this is the case no foreigner is allowed to enter New York state – non
sono poi così irrealizzabili, e il suo lavoro è dichiarato autentico da un vero
certificato (Real Artist Certificate, 2004). O attraverso un'ostentata
riproducibilità: l'arte diventa gratuita e take-away (Free art – take me
home, 2004) costa il prezzo dei suoi materiali. Come a svelare fantomatiche
strategie di marketing, il valore simbolico dell'opera implode dietro a un dito
puntato, a un titolo più lungo del dovuto (Cinque sculture costruite
assemblando oggetti che assieme, colla inclusa, costano quattro euro, 2003) che
rivela: “il re è nudo!”.
È una predisposizione analitica quella di Pasquini che
non si esprime mai attraverso massime teorie, ma sempre a livello personale,
giocata con leggera ironia, perfino quando è il paradosso ad essere messo in
scena (Questionnaire, 2003), o in operazioni tautologiche, come denominare Negozio
il posto dove si vendono le opere di arte (la galleria Dulcisinfundo di
Modena per la sua mostra personale del 2004) e stampare il suo brand, la sua faccia,
sull'etichetta degli oggetti in vendita.
Dal coinvolgimento viscerale degli esordi, nelle
performance di stampo politico, in cui la sorte di figure come Bantu Stephen
Biko o Aldo Moro, ovvero le rispettive icone di origine massmediale, è vissuta
sulla propria pelle, o nella frustrante condizione di giovane artista (Welcome
to London, 1995, Do you cry often, 1996, Who the fuck is taking care about me, 1998),
Pasquini passa a un lavoro più sistematico, da burocrate incallito, quasi si
muovesse dietro prescrizione medica, e realizza un'opera al giorno nel progetto 2004. A
volte sono due, tre, nove. La statistica mensile prevale sul contenuto. Suscita
una morbosa curiosità il tentativo di trovare nei numeri una giustificazione a
quell'altalenare tra produttività, o meno, tra pc e acquarello, tra pannolini
(dei due figli sfornati) e attualità: è l'annullamento della volontà in un
ostinato proposito. Niente di più prosaico.
Come in Negozio, in cui gli abiti usati,
buttati, trovati, vengono modificati attraverso maldestri colpi di macchina da
cucire, dettagli insignificanti d'esistenza sfuggono all'oblio, e si vestono di
eccezionalità, secondo uno apparentemente oscuro, ma fondamentalmente
insignificante, strategia di recupero.
La condizione dell'artista è di perdersi
incessantemente nei meandri dell'inutilità – come, per esempio, quella di
ideare un
codice per inventariare tutto l'operato – allora, a questo
punto tanto vale lasciarsi anche annegare in un bicchier d'acqua (UI0801
- Water, 2008).
Cristina Natalicchio