Bologna - Villa
Serena – 8/26 Marzo 2002
Se nella maggior parte delle strategie artistiche l’iper-frequentata
tematica che tratta dell’impossibilità di comunicazione è portata ad esprimersi
con silenziosa ed elegante sobrietà (e dunque con l’inespressione equivoca,
muta e rassegnata), esistono rari casi in cui gli accidenti quotidiani e le
ispirazioni sensazionali sono evocate con stridente e allarmante “presenza
fisica”. E’ questo il caso di Stefano
Pasquini. Artista poliedrico e mestamente chiassoso, che nella sua attenta
“esplorazione dei paradossi sociali” passa indifferentemente dalla scultura,
alla fotografia, all’istallazione e al video (ogni mezzo è lecito per alludere
sarcasticamente all’insensatezza e alla superficialità della comunicazione
umana), si dimostra geniale “urlatore silenzioso”, “strampalato artigiano
contemporaneo”, “fautore di quelle caustiche bizzarrie” che concretizzano un
personale e sofisticato excursus sull’avvicendarsi delle imperscrutabili possibilità
della cultura e del reale quotidiano. Nullificando, in questo suo modo, ogni
vana ricerca di possibili bellezze estetiche, si presta come testimone-padrino
di quell’“arte della muta insolenza”.
Un’arte, la sua, inquieta e squillante; di un linguaggio camuffato e
meandricamente barocco che scioglie come nell’acido ogni cosa che gli passa
davanti (per poi riprenderla nei suoi residui antiestetici e kitsch). In questa
occasione, tra le innumerevoli proposte del suo personale “Museo degli orrori”,
Stefano Pasquini sceglie, come assistito dal caso (e non sia mai di considerare
tale modalità di scelta come inopportuna, per il semplice fatto che ogni opera
è fondamentale cellula indipendente del corpo della sua arte), un gruppo di
lavori eterogenei: Running out, appunto, comprendente due
busti-installazioni (Rimini, 2001, ed Environmental Wanderer,
work-in-progress iniziato nel 2001) e cinque video-proiezioni (i lenti e
misteriosi rituali notturni di una strada newyorkese in Blowin’ in the wind,
le scorribande d’attualità politica in Mustapha del 2001, le silenziose
proposte brigatiste di Toni Negri in The Sound of Silence, la letterale
citazione a Michael Snow in Fallin’, e la “visuale di un allegro cane
abbandonato sull’autostrada” in Les Cactus del 2002).
Confuso nel caos degli eventi, Stefano Pasquini “corre fuori” e con
fare sbrigativo registra nei modi dell’arte gli sbalordimenti e gli effimeri
eventi che lo travolgono. Ne restituisce una visione bruciante e corrosiva. Con
ogni probabilità, sia che si tratti di surreali busti pseudoneoclassici (in cui
l’effigiato diventa “dolorosa gengivite” sfoggiando una protesi dentaria sul
capo), o di sentite partecipazioni politiche in video (silenziate da
favolistici sonori musicali), quello che solleva ogni frettoloso giudizio è la
percezione di una sua tenera e labile soggettività che traspare, e che
sottilmente s’intravede tra le mostruosità di una “bella” realtà trasfigurata.
Patrizia Silingardi